Lo scorso mese di ottobre 2018 ho avuto il piacere di organizzare un convegno che ha messo a confronto due temi di grande attualità per noi avvocati: quali <<ADR>> e <<FAMIGLIA>>, resi ancora più interessanti dalla proposta di legge del senatore S. Pillon che ha l’obiettivo dell’obbligatorietà della mediazione familiare, lambendo così entrambi gli istituti in argomento.
L’esperienza che ho maturato quale mediatore civile e commerciale (dal 2010) e membro degli Avvocati per la negoziazione (dal 2014 ) mi induce a ritenere che sia non solo utile, ma addirittura necessario – per noi avvocati e tecnici – soffermarci sulle diverse opportunità offerte dal legislatore in tali ambiti, sui quali, nell’arco dell’ultimo ventennio è intervenuto ripetutamente ed in maniera significativa: da tempi più lontani in materia di famiglia e, più di recente, in seno alle ADR.
L’oggetto dell’approfondimento odierno verte, dunque, sull’utilizzo delle tecniche alternative (rectius “appropriate”) di risoluzione delle controversie in ambito familiare, posto che oggi più che mai, vi sono interconnessioni sempre più concrete tra le due materie: del resto a molti di noi è senz’altro già capitato di cimentarsi nell’ambito della famiglia, con le nuove tecniche di risoluzione alternativa della controversia.
Cominciando dalla materia familiare, vale la pena di ricordare che prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, ci si focalizzava sulla figura del marito e del padre: istituti quali “dote”, i “beni parafernali” e lo stesso aggettivo “patria” riferito alla potestà, non lasciano spazio a dubbi sulla centralità di tali ruoli e non hanno bisogno di ulteriori osservazioni.
Nel tempo vi è stata una sorta di evoluzione, che si può dire abbia portato per certi aspetti addirittura ad una esasperazione nel versante opposto, da cui la lamentata preferenza della figura della madre (maternal prefence), subita per alcuni come una sorta di automatismo – ancora una volta eccessivo – in tempi non troppo lontani.
In questo iter, si sono susseguite una serie di innovazioni legislative, quali:
- 54/2006: che dall’affido esclusivo ha portato <<all’affidamento condiviso dei figli>> (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) e finalmente pare mettere più al centro i figli che la coppia in crisi;
- 154/2013 che impone il passaggio dalla “potestà” genitoriale alla “responsabilità” genitoriale (laddove prima ancora era “patria” potestà) sia pe la separazione che divorzio, parificato dall’art. 12 sexies L. 898/70, ed ha introdotto gli artt. 337 bis e della <<responsabilità>> genitoriale che mette al centro l’interesse morale e materiale della prole;
- 132/2014 è stata introdotta la negoziazione anche in tema di famiglia,
- 55/2015 che ricuce lo spazio intermedio dalla separazione al divorzio dai tre anni ai 6 mesi / 1 anno a seconda dei casi;
- In materia penale dapprima la modifica dell’art. 570 c.p. ed ora la recentissima introduzione dell’art. 570 bis c.p.che amplia il campo della sanzione a tutte le situazioni omissive, stringendo così le maglie per giungere una sentenza di condanna;
- nell’agosto 2018 la proposta di legge S. Pillon, peraltro anche già ampiamente criticata per alcuni aspetti anche delle stesse associazioni di categoria che ne hanno ampiamente messo in risalto le criticità attivandosi per proporre modifiche mirate.
Quando mi soffermo a ragionare sull’excursus dell’ultimo ventennio, che ho vissuto direttamente, riaffiorano alla mente i ricordi di quando da “praticante” sedevo vicino al “dominus” per imparare la professione forense. Se si trattavano pratiche afferenti alla famiglia in “crisi” venivano prospettate due alternative: separazione giudiziale o consensuale, divorzio giudiziale o congiunto. Spesso e volentieri si procedeva con la giudiziale, anticipando ai clienti che, nel caso si fosse trovato un accordo all’esito dell’istruttoria, ben si sarebbero potute presentare le conclusioni congiunte, ricordandosi poi di procedere comunque alle notifiche della sentenza.
Per non tacere che, contestualmente, si procedeva con le necessarie verifiche atte a valutare tutti gli elementi che potessero fondare una domanda di addebito in danno al coniuge avversario. L’essenza del contendere era prettamente centrata sui coniugi, sulle loro spesso ampiamente sperequate risorse economiche – oltre che psicologiche – e per lo più si finiva con l’affido esclusivo alla madre dei figli, con l’onere del mantenimento in capo al padre. Capitavano, più raramente, casi di coniugi con risorse economiche paritetiche che allora si osteggiavano in maniera ancora più strenua per l’affido.
Da allora, molto è cambiato: basti solo pensare all’obbligo deontologico che abbiamo di informare i clienti che si rivolgono a noi per la separazione o il divorzio, ai quali dobbiamo prospettare tutti diversi strumenti che possiamo (rectius: dobbiamo?!) utilizzare per affrontare la controversia: dal giudizio in Tribunale, alla negoziazione in materia di famiglia ed, ancora, alla mediazione nel caso di questioni economiche da affrontare: si pensi alle case in comune, specie quelle di vacanza acquistate in costanza di matrimonio, ai conti correnti cointestati, ai prestiti conferiti da un coniuge all’altro in costanza di matrimonio magari per appianare debiti dell’azienda dell’altro coniuge, o ancora ad intestazioni più o meno fittizie di quote di società, o di case familiari di pregio, o acquisti di immobili effettuati con i risarcimenti di sinistri stradali o con eredità nel frattempo ricevute. Quante volte ci capita di sentire che tali beni sono stati conferiti da un coniuge alla famiglia, spesso in maniera inconsapevole ed automatica, pur non essendovi tenuto, e constatarne il pentimento col senno del poi, quando nella fase di crisi della famiglia vengono messe in discussione tutte quelle scelte di condivisione che al tempo erano state date per scontate ed assunte senza ulteriori cautele (!).
Ecco dunque che entra in gioco l’utilità delle ADR introdotte nel nostro sistema con:
- L.vo 28/2010 e successive modifiche con alterne vicende sull’obbligatorietà;
- 132/2014 (cfr. art. 6) in materia di famiglia.
Premetto che ritengo comunque che alle volte sia utile, se non addirittura necessario, attivare la tutela Giudiziale: ritengo solo che questa alternativa debba essere valutata di volta in volta. Può capitare infatti che ci si trovi la strada sbarrata anche magari dal collega che rappresenta la controparte e non intende in alcun modo consigliare il proprio assistito ad avvalersi di questi mezzi. O alle volte che ci sono situazioni così particolari, dove si debba mettere in discussione purtroppo la stessa capacità genitoriale e dove sia addirittura necessario l’intervento del Giudice il cui vaglio risulti proprio indefettibile, ma li voglio considerare casi marginali.
In ogni famiglia si intersecano sempre questioni economiche, pensare dunque ad una mediazione commerciale anche in materia familiare è cosa che oggi davvero non stupisce più ed anzi ci troviamo sempre più spesso ad affrontare. Personalmente mi è capitato di vedere attivare per la stessa pratica familiare, particolarmente complessa, da una lato la negoziazione (per la modifica delle condizioni di separazione) e dall’altro mediazione (per questioni afferenti alla divisione degli immobili) ed in un successivo momento – dopo mesi di lavoro con le ADR ed avere appianato le distanze tra le parti – di depositare un ricorso per divorzio congiunto dinanzi al Tribunale. Vi sono infatti situazioni dove può dunque rivelarsi davvero utile attivare anche più di un percorso di risoluzione, tenendo a mente che il cliente non vuole necessariamente affrontare una causa ma, piuttosto, ottenere un risultato.
Ritengo che tutto il fermento in materia di ADR sia frutto di una sempre maggiore presa di coscienza della centralità dell’individuo ed abbia il dichiarato intento di restituire alla parte il proprio ruolo: quello di potersi gestire il conflitto senza continuare delegarlo né all’avvocato, né tantomeno al Giudice, con conseguente auto -determinazione della parte che, non solo deve essere consapevole delle proprie ragioni ma ha così anche l’opportunità di attivarsi in prima persona per cercare essa stessa una soluzione al conflitto.
La scelta sulla gestione chiaramente va ponderata di volta in volta col cliente, il quale potrà scegliere se rimettersi al Giudice, delegare all’avvocato o partecipare in prima persona alla definizione della controversia.
Personalmente, approvo la mediazione come strumento di civiltà, dove la lite viene restituita al proprietario del conflitto, la cui risoluzione richiede tempo ed impegno a tutte le parti, le quali possono così mettersi in gioco con le loro risorse, quali autonomia e responsabilità. Conseguentemente sta a noi avvocati proporre ai nostri assistiti il mezzo più congruo per gestire la crisi. Certo è che non possiamo più ragionare col vecchio sistema binario giudiziale/consensuale o congiunto: ora dobbiamo aprioristicamente avvisare i nostri clienti di tutti diversi percorsi che si possono intraprendere per arrivare alla soluzione dei quesiti che portano sul nostro tavolo.
Questo comporta per noi avvocati lo sforzo di modificare l’approccio con i nostri clienti cui possiamo iniziare a chiedere l’impegno di farsi carico non solo del problema ma della soluzione dello stesso. Sul punto richiamo un interessante spunto proposto in un libro di Massimo Recalcati intitolato <<Il complesso di Telemaco>> scritto nel 2013 (I Saggi, Feltrinelli), dove osservava che la genitorialità non può essere confusa con il destino, spesso burrascoso della coppia nel cui gorgo di rivendicazioni possono essere trascinati i figli. Ebbene egli osserva come in tali frangenti si esiga l’intervento del “Terzo”. E da qui la riflessione se, in realtà, il giudice non intervenga piuttosto sugli adulti che sui figli e sul fatto che la sua chiamata in causa, sempre più inflazionata, sia in realtà la testimonianza di una <<minorizzazione generalizzata degli adulti>> che evidenzierebbe da un lato il venire meno della forza di assumersi la responsabilità di una decisione che afferisce ad ogni atto educativo, con conseguente delega della responsabilità al giudice.
Tali riflessioni non possono esimersi dalla considerazione che proprio in questi mesi è al vaglio il DDL 735 proposto dal senatore proponente Simone Pillon, il cui titolo è molto impegnativo: <<Nome in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bi-genitorialità>> che si propone di porre in essere una riforma c.d. “epocale”, che nasce dalla necessità di adeguamento alla Risoluzione UE 2079/2015 del Consiglio d’Europa, che esorta gli Stati membri ad adottare legislazioni che assicurino l’effettiva eguaglianza dei genitori rispetto ai figli, con concreta partecipazione dei medesimi nelle reciproche vite, suggerendo la doppia residenza o domicilio (c.d. shared residence) incoraggiando la mediazione, con colloquio informativo obbligatorio fissato dal Giudice. L’intento dichiarato di tale innovazione legislativa, sarebbe quello di riassegnare la centralità alla famiglia ed ai genitori, lasciando al Giudice di intervenire in via residuale: in caso di mancato accordo per la verifica della non contrarietà all’interesse dei minori nelle decisioni assunte dai genitori. Tralasciando in questa sede di commentare i contenuti della proposta (non tutti necessariamente condivisibili) e non sapendo davvero se, quando e con quali contenuti originari arriverà alla fine dell’iter – mi limito solo ad osservare come la stessa sia in ogni caso l’emblema di un segno dei tempi, in sintonia con tutte le premesse, anche legislative, sinora attuatesi.
Per concludere voglio prendere in prestito l’espressione del filosofo polacco Zygmut Bauman che ha elaborato il concetto di <<società o modernità liquida>>. Alla sua visione di crisi della comunità e di individualismo sfrenato secondo cui <<il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza è l’unica certezza>> io oppongo invece un po’ di ottimismo: sono convinta anche io che il cambiamento sia il filo conduttore di questi tempi ma ritengo anche che sia utile e necessario per noi, operatori del diritto, starci dentro e viverlo da protagonisti.
Se, dunque, vi sono delle iniziative di legge che non si rivelano subito corrette e nemmeno del tutto coerenti con l’obiettivo iniziale, almeno c’è un percorso, un file rouge da seguire e da raggiungere. Credo che nessuno possa parlare di una involuzione ma semplicemente di una lunga serie di tentativi volti comunque a portare l’individuo al centro, riconoscendolo nel proprio ruolo, nella propria responsabilità e nel pieno esercizio della propria autonomia, anche – e soprattutto – nel delicatissimo “nodo” delle relazioni familiari.
Avv. Cristina Broggin
Mediatore civile e commerciale